Il dialogo bohmiano come strategia d’impresa

Dialogo bohmiamo come strategia di impresa

Sostengo che il dialogo trasformativo sarà la risorsa strategica più critica che le imprese del terzo millennio saranno chiamate a gestire nell’immediato futuro.

Occorrerà probabilmente capire che la determinazione del senso, ovvero del significato e quindi del valore prodotto, non potrà più essere frutto di una deriva culturale che ragiona solo per categorie tecno-economiche, ma sta già ora chiedendo di emergere, nelle organizzazioni e nella società, da un processo partecipativo e trasformativo, di co-creazione dialettica, ancora tutto da esplorare.

In questo articolo cerco di spiegare  perché il dialogo , inteso in senso bohmiano, sia a mio avviso  l’abilità di base richiesta per il cambiamento.

Grammatica della comunicazione

Nell’era dell’informazione, si dice, la comunicazione è tutto. Ma ne conosciamo la grammatica? Siamo sicuri si sapere anche solo cosa significhi comunicare? Nel suo scritto Sul Dialogo, David Bohm (2014), insieme a tutto il filone di studi sul management generato dal MIT Dialogue Project di Bill Isaacs, espressamente ispirato alle idee di Bohm, insistono sulla criticità della questione.

Usando la metafora di Scharmer (2010) potremmo dire che questo sia davvero, oggigiorno, il “punto cieco” della leadership mondiale, ma anche delle consuete strategie relazionali interne a comunità e organizzazioni.

E’ il “baco” indicato  da Bohm e Krishnamurti  alla fonte del processo del pensiero: l’assenza a se medesimo, la sua incapacità di riconoscere la propria natura inerziale eppure generativa (Bohm, 1994). Inerziale perché tacitamente fondata su assunti fondamentali culturalmente ereditati e mai scelti. Generativa perché intrinsecamente artefice delle visioni del mondo e del giudizio di realtà.

La “comun-ic-azione”, cui spetterebbe il compito di produrre il collante culturale delle organizzazioni e delle comunità umane facendo di cose originariamente estranee significati comuni e condivisi, testimoniati fattualmente con coerenza e consensualmente tramandati, viene così depotenziata a mera esposizione di qualcosa di già dato a prescindere dall’atto stesso.

Ma in questo modo ogni forma di comunicazione finisce inevitabilmente per tradire il suo stesso mandato ogni volta che il dato risulti incompatibile con l’immaginario del soggetto ricevente.

Nelle organizzazioni prive di una cultura della comunicazione si producono incomprensioni reciproche, incoerenze strutturali, contrapposizioni confutative e conflitti.

Il dialogo bohmiano (dal nome di David Bohm) consente alla comunicazione di riappropriarsi del suo carattere partecipativo portando gradualmente alla luce la pari fondatezza (o, se si preferisce, la pari infondatezza) dei presupposti taciti da cui discendono le visioni divergenti dei singoli.

Ne risulta un processo fecondo di insight e di aperture reciproche, che si traduce nella co-creazione di nuovi significati (o valori) inclusivi e condivisi, intorno ai quali il gruppo costituisce a poco a poco la sua propria cultura interna.

In questa più profonda accezione del termine, la comunicazione presenta una sua precisa grammatica generativa, fatta di nessi semantici tra osservazioni, sentimenti, bisogni, strategie e richieste, da cui emerge un linguaggio capace di restituire potere alle parole e di superare le barriere delle divisioni culturali, professionali, politiche e sociali.

Ecco perché quanto più complesso e frammentato si fa il mondo, tanto più abbiamo bisogno di metabolizzare la sintassi della comunicazione empatica e la pratica del dialogo co-creativo, se vogliamo che gli altri ci ascoltino e ci comprendano quando proviamo a comunicare.

Applicabilità al mondo del lavoro

Cecile Querubin (2011) ha documentato che quando i partecipanti di un gruppo di lavoro esplorano insieme i propri modi di pensare e di agire così come si fa nei cerchi di dialogo bohmiano, essi arrivano effettivamente a comprendere più in profondità la struttura complessa dei problemi e dei temi che affrontano.

Poiché essi sviluppano un più alto grado di consapevolezza circa il modo in cui ogni loro azione si ripercuote sulle altre parti dell’organizzazione, i membri del gruppo imparano inoltre come cooperare più strettamente tra loro aumentando la coerenza complessiva dei comportamenti e delle scelte individuali.

Lo studio Querubin dimostra che non solo la pratica del dialogo bohmiano è genericamente funzionale al mondo del lavoro, ma che stimolando il pensiero sistemico può addirittura essere di aiuto nella ricerca consapevole delle linee di sviluppo più efficaci per l’impresa.

Quando  il dialogo viene visto come  un processo trasformativo,  l’organizzazione  può raggiungere un più alto livello di prestazioni.

Schein (1993) va anche oltre, arrivando a sostenere che l’introduzione del dialogo in azienda oggi è addirittura una necessità, per il ruolo centrale che esso svolge nel cambiamento del modello organizzativo.

Più il mondo diventa interconnesso e più velocemente crescono la complessità tecnologica e l’instabilità degli scenari di mercato, più le aziende devono sapersi adattare dinamicamente ai continui cambiamenti di contesto, con tempi di apprendimento e di risposta sempre più corti.

Ma i tradizionali modelli organizzativi che si articolano ancora oggi in molte aziende secondo funzioni e processi produttivi rigidi, gestiti con sistemi di pianificazione e controllo verticali, sono strutturalmente inidonei a soddisfare queste esigenze di apprendimento continuo e di flessibilità operativa, nelle grandi come nelle piccole imprese.

I nuovi modelli a cui guardare sono allora quelli dell’apprendimento organizzativo (Senge, 2006), in cui le strutture sono espressamente finalizzate al team learning attraverso pratiche dialogiche interfunzionali che infrangono le barriere delle divisioni, dei ruoli e dei livelli gerarchici tradizionali.

Il dialogo, inteso come lo intendono Bohm e Isaacs, è uno strumento centrale  in qualsiasi modello di trasformazione organizzativa.

Valenza strategica della prassi bohmiana

Senge (2006), Kotler (2010) e altri sottolineano che l’organizational learning è anche il modo per farla finita di mortificare, come invece fanno normalmente le tradizionali organizzazioni gerarchiche, le qualità intrinseche delle persone che lavorano in azienda, come la motivazione, il rispetto per se stesse, la dignità, la tensione creativa, la curiosità di imparare e la gioia nell’apprendere, e anzi tradurre tutte queste qualità in leve competitive per l’impresa stessa.

Là dove tali bisogni umani hanno modo di essere soddisfatti, a parte l’accresciuta responsività e adattività organizzativa dell’impresa, migliorano comprensibilmente anche il clima interno, l’integrità, il commitment, la resilienza, la produttività e la fedeltà dei collaboratori, finendo tra l’altro anche per attrarre le risorse umane più propositive e dinamiche che il mercato del lavoro può offrire.

Ma c’è anche un’altra conseguenza, a cui forse certo management è anche più sensibile, che secondo Daryl (1994) è direttamente collegata all’apprendimento organizzativo: è la capacità di innovazione, oggi più che mai centrale nella competizione di mercato.

Attraverso il repertorio delle pratiche co-creative basate sul dialogo, l’organizzazione che apprende è in grado di sviluppare una “intelligenza collettiva” sensibilmente più acuta e generativa rispetto alle possibilità dei singoli individui.

E non si pensi che tutto ciò riguardi soltanto le start-up. A volerli vedere, abbiamo sotto gli occhi molti casi di imprese tradizionali che hanno saputo trasformarsi in  learning organization di successo, o che sono sulla via del cambiamento.

In un rapido giro d’orizzonte tra settori e tipologie organizzative diverse, vale la pena di citare ad esempio Cisco e Whole Foods, multinazionali delle alte tecnologie e della distribuzione alimentare che si stanno sempre più trasformando in comunità praticando forme di democrazia collaborativa (Kotler 2011), oppure l’organizzazione infermieristica olandese Buurtzorg, le cooperative industriali di Mondragon in Spagna e la francese FAVI, piccola impresa metallurgica di 400 persone con un management orizzontale diffuso; veri e propri casi realizzati, questi ultimi, di “Evolutionary-Teal Organization” (Laloux 2014).

In Italia si possono citare il caso per certi versi inaspettato della comunità dei formatori INPS, o quello della comunità professionale dei designer del distretto industriale di Montebelluna (Mormino, 2011), o ancora, tra le PMI, quello del Cotonificio Albini nel bergamasco (Paladino, 2016).

Il problema dell’organizational learning è però che le diverse parti dell’organizzazione tendono alla lunga a sviluppare modelli mentali distinti, basati sulle differenti conoscenze via via direttamente acquisite da ciascuna, molte delle quali sono per di più conoscenze “tacite”, ossia abilità e contenuti cognitivi difficilmente tesaurizzabili attraverso le pratiche ordinarie di formalizzazione e distribuzione della conoscenza organizzativa.

Per questo motivo Schein e Senge ritengono fondamentale che le parti di una “organizzazione che apprende” si abituino a dialogare bohmianamente tra di loro. Appunto per esplorare insieme anche la dimensione delle conoscenze tacite e arrivare a co-produrre un unico modello mentale condiviso e inclusivo, capace di guidare e sostenere in modo coerente i comportamenti delle persone e dei gruppi al di là delle loro diverse subculture particolari.

La comunicazione in senso bohmiamo è un processo di legame che produce appartenenza culturale e fa comunità.

Anche a voler prescindere dal paradigma delle learning organization, i processi di comunicazione bohmiana possono e devono comunque rafforzare l’identificazione dei membri con l’organizzazione di appartenenza, evitando la creazione di barriere tra unità, funzioni o gruppi, dovute a differenze di competenze, obiettivi, metodi, linguaggi, norme e pratiche organizzative, o anche solo a differenze generazionali, culturali e a differenti livelli di fiducia interpersonale (Dutton et al, 1994).

Infine nelle PMI e in particolare nelle imprese familiari, dove i tipici problemi sono quelli del trasferimento dell’impresa dal padre ai figli, della successione alla leadership, della collaborazione tra e management e famiglia o tra innovatori e fautori della memoria istituzionale dell’impresa (Slywotzky), comunicazione empatica e dialogo bohmiano si dimostrano pratiche quanto mai feconde.

Nessuna “tecnologia sociale” senza una cultura del dialogo

L’errore più comune che commettono le organizzazioni e i gruppi interessati alle tecnologie sociali è quello di focalizzarsi sull’aspetto formale del processo, molto più che sui prerequisiti richiesti ai partecipanti, nell’illusione che le persone siano già in possesso dei necessari strumenti concettuali e operativi di base.

Detto molto chiaramente, perché si possano dare un Change Lab, un progetto di Design Thinking o un’altra qualsiasi di queste meravigliose tecniche partecipative, le persone coinvolte hanno bisogno di:

  1. capire esattamente cosa si chiede loro di fare;
  2.  trovare sensata la richiesta;
  3.  essere capaci di farlo.

Ma quando Scharmer e colleghi parlano, poniamo, di sospendere i giudizi, di rallentare il pensiero, di esercitare l’empatia, di osservare in modo non valutativo, di connettersi al sé o di “collegarsi alla fonte della creatività e della presenza”, di solito nessuna di queste tre condizioni elementari è minimamente soddisfatta!

E neppure il più brillante dei facilitatori è in grado di sopperire sul momento alle resistenze culturali comprensibilmente opposte dai partecipanti, fedeli ai loro atteggiamenti abituali e agli schemi del pensiero dominante che li abita.

La superficialità con la quale si è soliti sorvolare su questo tipo di difficoltà è la causa più frequente di insuccesso nei tentativi di applicazione concreta delle tecnologie sociali.

Altre volte ci si illude soltanto, riguardo agli esiti del processo, che sembra produrre qualcosa di nuovo, mentre la mancanza delle suddette condizioni di attuazione non gli consente in realtà di svincolarsi dal punto cieco dell’organizzazione.

Tutte le tecnologie sociali richiedono una solida cultura del dialogo e una diffusa familiarità con la grammatica della comunicazione profonda.

Ciò di cui non ci si rende ben conto è che certe competenze e abilità critiche di base richieste dalla Teoria-U, dal Design Thinking, dalla Future Search, dallo Scenario Planning e dalle tante altre ingegnosissime pratiche di “intelligenza partecipativa” (mi riferisco all’ascolto profondo, alla sospensione del giudizio, alla disciplina dell’empatia, a quella dell’osservazione fenomenologica, ecc.), sono assolutamente controintuitive e perfino incoerenti, rispetto al paradigma dominante dell’attuale cultura occidentale.

E che quindi, al di là di ogni teoria, non possono seriamente essere richieste a nessun gruppo reale di persone, le quali non abbiano preventivamente maturato un adeguato modello mentale condiviso.

Ma questo, come abbiamo visto, è compito delle pratiche di dialogo bohmiano, non delle “tecnologie sociali” minori, che si occupano di problemi contingenti e che, in definitiva, a mio avviso possono funzionare solo se si innestano su una solida cultura del dialogo e su una diffusa familiarità con quella che all’inizio abbiamo chiamato la grammatica della comunicazione.

In conclusione

Abbiamo visto che la “grammatica della comunicazione” e il dialogo bohmiano sono competenze fondamentali che ogni  impresa ha bisogno di  sviluppare per poter affrontare i cambiamenti organizzativi e culturali che i tempi le richiedono.

Abbiamo passato rapidamente in rassegna l’ampio spettro di benefici che una cultura del dialogo in senso bohmiano può  offrire a un’organizzazione, in termini sia di prestazioni che di  qualità del lavoro e della vita, valorizzando le qualità intrinseche delle persone e attivando l’intelligenza collettiva del gruppo.

Soprattutto, ho cercato di mettere in risalto la valenza strategica del dialogo bohmiano, dovuta alla sua peculiare capacità di generare fiducia reciproca, senso di appartenenza e significati comuni, che vanno a comporre un sovra-modello mentale inclusivo e condiviso, sulla cui base l’organizzazione può spontaneamente operare, imparare e trasformarsi, con agilità, coerenza ed efficacia.

A questo punto mi piacerebbe conoscere quali sono le vostre esperienze dirette. Quanto dialogate, voi, nelle vostre organizzazioni e nei vostri gruppi di lavoro? Quali sono i problemi strutturali specifici (di comunicazione, organizzazione, problem solving, sviluppo, ecc.) che riscontrate con maggior frequenza e che una cultura del dialogo co-creativo potrebbe forse aiutarvi a superare? E perché questo non avviene, se non avviene? Quali sono le resistenze? Parliamone. In fondo a questa pagina potete commentare.

Riferimenti bibliografici

– BOHM, D. (1994), Thought as a System, London and New York, Routledge.
– BOHM, D. (2014), Sul dialogo, Tr.it., Pisa, Edizioni ETS (ed.or. 1996).
– DARYL, M. (1994), “An organizational learning approach to product innovation”, in Journal of Product Innovation Management, 9 (3).
– DUTTON, J.E., DUKERICH, J.M., et al. (1994), “Organizational Images and Member Identification”, in Administrative Science Quarterly, 39.
– KOTLER, P. (2010), Marketing 3.0: Dal prodotto al cliente all’anima, Milano, Il Sole 24 Ore.
– LALOUX, F. (2014), Reinventing Organizations, Millis MA, Nelson Parker.
– MORMINO, S. (2011), Together: Team working, processi collaborativi, comunità professionali nell’organizzazione postfordista, Roma, Edizioni Polìmata.
– PALADINO, L. (2016), “Il mestiere di fare impresa nell’impresa”, in Ideas of Management, Milano, SDA Bocconi.
– QUERUBIN, C. (2011), “Dialogue: Creating Shared Meaning and Other Benefits for Business”, in Proceedings of the 55th Annual Meeting of the ISSS, 2011, Hull, UK.
– SCHARMER, O. (2009), Theory U: Learning from the Future as It Emerges, Oakland, CA, Berrett-Koehler Publishers.
– SCHARMER, O. (2010),”Il Punto Cieco della Leadership nelle Organizzazioni”, intervento al World Economic Forum, Tianjin, Repubblica Popolare Cinese, 13-15 settembre 2010.
– SCHEIN, E.H. (1993), “On Dialogue, Culture, and Organizational Learning”, in ID., Organizational Dynamics, vol. 22, Summer 1993.
– SENGE, P. M. (2006), The Fifth Discipline: The Art and Practice of the Learning Organization, (ed. rivista e aggiornata), Victoria, Crown Pub.
– SENGE, P.M., SCHARMER, et al. (2008), Presence: Exploring Profond Change in People, Organizations, and Society, Victoria, Crown Pub.

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